L’Avv. Biagio Lorusso, già sindaco di Bisceglie, ha presentato venerdì 29 novembre 2019 presso lo storico Palazzo Tupputi il libro di Felice Pellegrini “Una Città in camicia nera – Bisceglie nella cronaca dal 1926 al 1940”.
È, in ordine di tempo, l’ultimo libro di Felice Pellegrini. Consta di 472 pagine, di cui 31 contengono l’indice dei nomi di persone e di luoghi. Le persone citate sono ben 1475. È un formato 23 x 16,5 x 2,8.
Probabilmente vi state chiedendo perché propinarvi questi dati. L’intento del mio incipit è quello di evidenziare con immediatezza sia l’impegno fisico e intellettuale profuso dall’autore sia, e soprattutto, l’importanza del volume per la ricostruzione attraverso le cronache dell’epoca della vita cittadina inquadrata nelle contemporanee vicende nazionali.
Uno scritto molto interessante, al netto di un susseguirsi di nomi e di pubbliche cerimonie.
Un susseguirsi necessitato e ineliminabile in quanto i protagonisti e gli avvenimenti pubblici sono, per lo più, gli stessi in quegli anni.
La vita politico-amministrativa, al pari delle pubbliche cerimonie, sono, infatti, dominate da un numero ristretto di famiglie e dai padri, dai figli, dai nipoti di quelle stesse famiglie. Salvo qualche eccezione, naturalmente.
Dal libro traspare una società biscegliese (ma lo stesso può dirsi di quella nazionale) statica, priva di quell’ascensore sociale, di quella osmosi sociale nella scalata in base al merito verso i posti di responsabilità politica, amministrativa e professionale. Una società appiattita perché dominata da un blocco sociale.
“Una città in camicia nera” abbraccia, dunque, un periodo, quello dal 1926 al 1940, in cui si consolida il regime fascista e, nello stesso tempo, rappresenta l’inizio della fine di quel regime.
Il fascismo si consolida grazie alle cosiddette “leggi fascistissime”, che entrano in vigore nel primo dei quindici anni in questione. Comincia a disgregarsi nell’ultimo degli anni, il 1940, a causa dell’irrazionale, parossistica decisione di sedersi a un illusorio tavolo dei vincitori di una guerra che da blitz krieg (guerra lampo) divenne subito per l’Italia disastrosa con l’attacco alla Grecia, e disastrosa continuò nel deserto nordafricano e nelle nevi russe. Disastri costellati da atti di eroismo dei fanti, degli avieri e dei marinai italiani da non dimenticare.
Così come non devono essere dimenticati i responsabili diretti della decisione di entrare in guerra. Decisione, anche qui a Bisceglie applaudita e sostenuta, come ci ricordano le cronache riportate nel libro da Felice Pellegrini, da intellettuali, insegnanti, ecclesiastici, dirigenti del partito unico e dei sindacati corporativi.
Il libro che oggi recensiamo costituisce il terzo di un trittico per affinità di argomenti. Il primo ha come titolo “Il treno delle 6 e 40-Visi e fasi della ripresa cittadina alle soglie degli Anni Cinquanta”, edito nel 2011. Il secondo “…e le carrozze andarono senza i cavalli” sottotitolato “Uomini e fatti del primo Novecento (1900-1915), edito nel febbraio 2017.
Una trilogia, dunque, relativa alla prima metà del ventesimo secolo, il 900, di cui Felice ricorda la definizione di “secolo breve”. Un termine inventato dallo storico Eric Hobsbawm ed entrato nella storiografia. Breve, perché si considerano gli anni prima del 1914 appartenenti politicamente al XIX secolo e si ritiene concluso politicamente con la dissoluzione dell’Unione Sovietica (1991).
Si contrappone all’altra definizione politica del XIX secolo come il “secolo lungo”, che si aprirebbe con la Rivoluzione Francese (1789) e terminerebbe il 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale.
La narrazione dei fatti e delle vicende, anche di persone, tra il 1926 e il 1940, è una lodevole e benemerita ricostruzione cronachistica.
Ma non è solo questo.
Scalfendo con unghia intelligente la superficie della narrazione, essa acquista valore di esposizione storica e di finalità pedagogica.
Non sono, queste mie, affermazioni assiomatiche o adulatorie per un amico.
L’adulazione non ha mai fatto parte del mio corredo comportamentale. Queste mie affermazioni sul valore del libro e sull’intento recondito di scriverlo scaturiscono da lunga frequentazione personale e politica che ho avuto ed ho con Felice Pellegrini; dalla conoscenza della inclinazione dell’amico farmacistica per le discipline umanistiche e dall’influenza che su di lui ha esercitato chi per la libertà “vita disperse”, cioè lo zio materno, Vincenzo Calace.
Da ultimo, le mie affermazioni si fondano anche sulla lettura di tutti i suoi libri, cui continuo a ricorrere per rinnovare la mia memoria del passato recente.
La ricostruzione del tempo che fu non è fine a se stessa. Al di là dell’intento dello scrittore, al lettore attento e riflessivo la storia raccontata dovrebbe servire da vaccino contro la ricaduta, possibile in tempi difficili ed incerti come quelli attuali, in cui si ritornano a chiedere “pieni poteri”.
Entrando più nello specifico, anche Bisceglie, come tutta o quasi tutta l’Italia, indossa in massa l’uniforme.
I biscegliesi, al pari degli altri italiani, lo fanno per vari motivi: – per convinta adesione al fascismo; – per calcolo e convenienza; – per necessità; – per subìta imposizione o per sottrarsi a ritorsioni nell’esercizio delle professioni, negli impieghi pubblici, nelle attività imprenditoriali.
Ecco che sono tutti, o quasi tutti, in uniforme: figli della lupa dai 6 agli 8 anni; balilla dagli 8 ai 14; moschettieri dai 12 ai 13; avanguardisti dai 14 ai 18; avanguardisti moschettieri dai 16 ai 17. Corpi femminili: figlie della lupa, piccole italiane dagli 8 ai 14 e giovani italiane dai 14 ai 18. E poi fasci giovanili di combattimento e giovani fasciste dai 18 ai 21; gruppi universitari fascisti. La camicia nera iniziale uniforme solo degli squadristi, fu poi uniforme indossata da altre categorie. Dal 1934 anche dagli insegnanti.
Dalle pagine del libro, dunque, affiora una Bisceglie uniformata; normalizzata secondo la visione del regime fascista, divenuto apertamente dittatoriale, come scrive F.P., dopo il discorso di Mussolini pronunciato nell’aula di Montecitorio il 3 gennaio 1925, con il quale il duce si assume la sostanziale responsabilità del delitto Matteotti(10.6.1924). Per inciso, il primo deputato a cadere vittima dello squadrismo fascista fu Giuseppe Di Vagno, colpito alla schiena da due colpi di pistola al termine di un comizio tenuto a Conversano il 25.9.1921. Il primo giugno di quell’anno aveva tenuto a battesimo a Bisceglie la nuova bandiera della Lega Contadini e subito dopo un comizio organizzato dai socialisti al Largo Teatro Garibaldi. Notizie riportate su Il Giornale delle Puglie, il cui trafiletto, datomi in copia da Luca De Ceglia, ho riprodotto nel mio recente libro.
Una Città normalizzata. Beninteso, in Italia come a Bisceglie ci sono nel 1926, e ci saranno anche dopo, gli irriducibili e i contestatori. Ad essi la vita verrà resa difficilissima. In alcuni casi, tolta. Molti espatriarono. Nel libro si menzionano i biscegliesi Vincenzo Grosso (processato dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato, istituito nel 1926 con la contemporanea introduzione della pena di morte. Sarà nel dopoguerra dirigente della locale sezione comunista) e Francesco Martucci (inizialmente socialista, poi anarchico. Più volte arrestato, subirà il confino nella lontana isola di Lipari. Rientrerà a Bisceglie il 27 marzo 1927 per grave malattia a un occhio). Espatrierà negli USA alla fine del 1925 Leonardo, suo fratello e mio nonno materno: i figli avevano meno di tre anni (Cecilia) e meno di uno (Demetrio).
Una Città e un’Italia fascistizzate, dunque, con un’opposizione ridotta al silenzio, compresa la stampa. Felice Pellegrini ne scrive sin dalle prime pagine, ove riporta l’affermazione fatta dall’on.Farinacci secondo cui: “il regime, con una rivoluzione in atto…, non ha davvero bisogno dell’assillo della stampa d’opposizione”.
Bisceglie è sempre pronta a esternare la propria adesione alla politica di ridurre al silenzio gli oppositori.
L’Autore, a tal proposito, riporta il telegramma inviato dal segretario politico della locale sezione del PNF, in cui si afferma che “la gioventù studiosa di Puglia rinnega Gaetano Salvemini indegno figlio di questa terra generosa e domanda che a lui sia tolto per sempre l’onore di chiamarsi italiano”. E difatti, allo storico molfettese con decreto del 30.9.1926 fu tolta la cittadinanza italiana e furono confiscati i beni. Malvagia sorte quella riservata al Salvemini, che nel terremoto di Messina del 1908 aveva perso la moglie, i cinque figli e la sorella.
Il fratello Mauro, insegnante nella Scuola Elementare di Bisceglie, ove risiedeva, vestì, invece, l’uniforme.
Altro telegramma, pubblicato su La Gazzetta del Mezzogiorno del 5.6.1931, fu quello con cui lo stesso segretario del PNF esprimeva plauso per la condanna a dieci anni inferta a Vincenzo Calace dal Tribunale Speciale, la cui sentenza del 30.5.1931 fu dichiarata giuridicamente inesistente dalla Suprema Corte di Cassazione il 15 aprile 1982.
Lo scenario descritto attraverso le cronache del tempo ci riporta, dunque, agli anni della scomparsa degli ultimi retaggi del mondo postrisorgimentale e ci consegnano due mondi, il liberalgiolittiano e il popolarcattolico, che si convertono in massa al nuovo credo fascista.
È sufficiente leggere o rileggere le pagine di contenuto politico-amministrativo del libro “… e le carrozze andarono senza cavalli” relative al primo quarto di secolo e confrontarle con quelle relative al successivo quindicennio, che qui stiamo commentando, per dedurre che quel mondo liberale e di estrazione cattolico-popolare dà al nuovo regime non solo diffuso sostegno di base, ma cambiando camicia gli presta gli stessi amministratori pubblici del primo quarto di secolo; oppure, se nuovi, sono, comunque, i discendenti delle stesse famiglie dominanti nel precedente quarto di secolo.
Il mondo dei chierici concorre in maniera fattiva e determinante alla costruzione del consenso in favore del regime fascista, ancor prima che il duce sia osannato come uomo della provvidenza, a seguito della sottoscrizione dei Patti Lateranensi l’11.2.1929. Patti che registrarono, come Felice Pellegrini ricorda, il contributo del giurista biscegliese Nicola Consiglio.
Sull’apporto dato dal Consiglio, ne ha scritto anche Luca De Ceglia in “Quelle serate del 1929 a casa di Mussolini” edito il 2012 dall’Associazione Borgo Antico di Bisceglie. Nello stesso libro l’amico Luca riporta la testimonianza di Marcello Veneziani su un concordato meno celebrato – quello con la Comunità israelitica di Roma – sul riconoscimento delle comunità israelitiche, le cui trattative furono condotte dal Consiglio. La gratitudine degli ebrei romani fu espressa con una medaglia di oro donatagli nel 1930.
A proposito del consenso degli ecclesiastici si leggano a titolo esemplificativo le pagine 47 (in cui si scrive di un’apprezzata relazione dell’arcidiacono Caputi, preside del locale Ginnasio, in occasione dell’inaugurazione dell’anno scolastico nell’ottobre 1921) e le pagine 299 e 300 (in cui lo stesso preside innalza un peana in onore di Benito Mussolini).
Ho usato poco prima l’espressione “nuovo credo fascista”. È un’espressione propria e appropriata.
Il Fascismo, in effetti, creò una Scuola di mistica fascista con al centro il culto per la persona del duce, identificato come unica fonte della mistica fascista. La dedizione al duce si spingeva fino al sacrificio della vita, così come il matrimonio e la generazione di prole venivano intesi come omaggio a Mussolini sino al fanatismo.
Pioniere e artefice della Scuola fu Niccolò Giani, un mancato chimico e un mancato avvocato, caduto in Albania nel 1941.
Fondata a Milano nel 1930 da universitari, la Scuola fu intitolata a Sandro Italico Mussolini, figlio di Arnaldo, morto a 20 anni per mielosi globale leucemica. Ebbe tra i docenti Amintore Fanfani. Nella voce “mistica fascista”, presente nel Dizionario di Politica edito dal PNF nel 1940, viene definita come convinzione nell’assoluta verità della dottrina affermata dal duce. Molto vicini ai mistici fascisti furono i massimi esponenti dello spiritualismo cattolico del tempo. Si spiega così il fervore mostrato verso il fascismo da intellettuali e professori biscegliesi.
Per chi volesse saperne di più segnalo il libro di Tomas Carini “Niccolò Giani e la Scuola di Mistica Fascista” con prefazione di Marcello Veneziani Ed. Mursia, 2009.
“Quei giovanotti che ci avevano insegnato la mistica fascista si convertirono alla mistica marxista” scriverà Francesco Forte, economista socialista, autore di “A onor del vero. Una biografia politica e civile”, Rubbettino, 2017.
Il “credo fascista” fu abbracciato da numerosi intellettuali, scrittori, artisti. Molti di essi si piegarono a ricevere emolumenti dal regime e cercarono successivamente di nascondere quel loro passato.
Tra gli scrittori qualche nome: Giuseppe Ungaretti, Vincenzo Cardarelli, Vitaliano Brancati (suo il racconto tragicomico di un’impotenza sessuale “Il bell’Antonio”, pubblicato nel 1949, e il romanzo postumo – 1959 – “Paolo il caldo”, storia di un’ossessione erotica, alla quale s’intreccia una lucida analisi del costume politico e culturale del dopoguerra), Vasco Pratolini (quest’ultimo si dichiarava disponibile per l’OVRA. Scrisse nel 1960 “Lo scialo”, in cui lo scrittore descrive la storia della borghesia all’avvento del fascismo. Il protagonista rinuncia ai suoi ideali giovanili socialisti per opportunismo e convenienza).
E poi Achille Campanile, Elio Vittorini, Anton Giulio Bragaglia, Corrado Alvaro.
Caso clamoroso fu quello di Sibilla Aleramo (pseudonimo di Marta Felicina Faccio, prima scrittrice italiana femminista), che ricevette sovvenzioni (“un fiume interrotto fino al 1943”, così Paolo Mieli in un articolo apparso su il Corriere della Sera del 1°giugno 2010).
La Aleramo ha un record, quello della velocità nel passaggio, a guerra finita, dall’altra parte della barricata.
L’OVRA fu la seconda polizia politica segreta, dopo la cd. CEKA, che Mussolini aveva creato ispirandosi alla polizia segreta sovietica.
Il primo nucleo fu costituito a Milano il 1927 e affidato alla direzione dell’ispettore Francesco Nudi.
Tra i reclutati vi fu Dino Segre, scrittore, più noto con lo pseudonimo di Pitigrilli.
L’ispettorato lavorò nell’ombra fino al dicembre 1930, allorchè l’Agenzia Stefani diramò, secondo le indicazioni di Mussolini, la notizia che era stata scoperta “un’organizzazione clandestina che ordiva delitti contro il regime”. Trattasi del gruppo di Giustizia e Libertà, di cui faceva parte Vincenzo Calace.
Non tutti si comportarono come gli scrittori, i giornalisti e gli artisti di cui ho detto.
Un caso per tutti, quello citato da Felice Pellegrini, di Roberto Bracco (pag.74), candidato diverse volte al Nobel per la letteratura.
Malato sin dalla metà degli Anni 30, versava in condizioni di assoluta indigenza, rifiutò il contributo di diecimila lire che l’attrice Emma Gramatica era riuscita a fargli ottenere da Mussolini tramite Dino Alfieri, ministro della cultura.
A Bisceglie, come in Italia, il fascismo raggiunse il massimo consenso a metà degli anni ’30 quando con enfasi e con retorica fuori misura venne proclamata la fondazione dell’Impero con la conquista dell’Etiopia.
Tra i tanti nomi citati nel libro mi piace ricordare un nome che ai più non dirà molto. Quello di Domenico Losciale. Citazione che faccio non solo per il legame di affetto e di parentela che mi lega ai suoi figli ma anche perché rappresenta la condizione difficile dei giovani sotto il fascismo.
Anche questo regime fu incapace di assicurare una stabilità occupazionale a operai specializzati, come il Losciale, che dopo aver lavorato a sedici anni presso la società italiana di Ernesto Breda (Breda Costruzioni Meccaniche di Milano), emigrò volontario in Eritrea.
Infatti, il regime cercò di sopperire all’alto tasso di disoccupazione inducendo i giovani a trasferirsi nelle colonie con propaganda sempre più martellante (cfr. pagina 186).
Felice Pellegrini non si limita a raccontarci vicende politico-amministrative o cerimonie pubbliche di uomini, di donne fasciste, di balilla, di piccole o giovani italiane, di avanguardisti, di insegnanti in divisa e di clero avvezzo al saluto al duce.
Egli ci narra anche di attività imprenditoriali e di premi conseguiti, ad esempio, da produttori ed esportatori di prodotti ortofrutticoli e di loro presenze in convegni, finanche a Bolzano.
Sono iniziative intraprese tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, che raggiunsero picchi rilevanti, pur nelle gravi e mai eliminate carenze logistiche (ad es., penuria di carri ferroviari), negli anni in esame e nei successivi anni ’50 e ’60 del secolo scorso.
Scrive anche della giovane Casa della Divina Provvidenza e delle dimensioni sempre più grandi che di anno in anno andava raggiungendo l’Opera Don Uva.
Un’Opera, quella di Don Pasquale Uva, che suscitava interesse sempre più vasto e veniva visitata da uomini di scienza come Ugo Cerletti, titolare dal 1925 della cattedra di neuropsichiatria presso l’Università di Bari e successivamente direttore della clinica neuropsichiatrica dell’Università “La Sapienza” di Roma.
Un ricordo di Ugo Cerletti apparve sul numero di settembre 1963 de “L’Eco della Carità”, periodico della Casa Divina Provvidenza.
Il ricordo era a firma di Girolamo Di Gregorio ed è stato da me riportato nel libro scritto con Felice Pellegrini e Giacinto La Notte “Girolamo Di Gregorio – L’uomo che amava le rose” edito da Associazione Mazziniana Italiana, 2008.
La visita del Cerletti sarebbe stata promossa, come scrive Felice Pellegrini, dallo stesso Mussolini.
Ritengo l’ipotesi molto verosimile. L’interessamento alla struttura psichiatrica biscegliese potrebbe, infatti, essere nata in Mussolini per avere il duce una moglie segreta: Ida Dalser, da cui ebbe un figlio Benito Albino Mussolini.
Ida fu internata in diversi manicomi a partire dal 1926 e sino alla morte (1937).
Stessa sorte subirà anni dopo anche Benito Albino (morto anch’egli in manicomio nel 1942).
In tema, si veda Alfredo Pieroni: “Il figlio segreto del duce” (Garzanti Editore).
Per quanto lunga, la presentazione che questa sera ho fatto a un così folto uditorio non è esauriente. Il libro va letto integralmente.
Non mi resta che ringraziarvi per la pazienza di avermi ascoltato e rivolgere un grazie immenso allo scrittore.
Avv. Biagio Lorusso